Sportivi, stelle del cinema, pugili, giovani TikToker, quella messa in campo da Hugo Boss è una delle campagne di rebranding più imponenti della storia del marketing.
Parlare di rebranding fino a qualche tempo fa significava approfondire aspetti della comunicazione circoscritti all’ambito grafico o cromatico. Si trattava di rielaborare loghi, ripensare al font utilizzato, adattare la comunicazione BTL o web a nuovi linguaggi o strutture. Certo, tutto fa parte di un cambiamento della brand identity e di un diverso posizionamento sul mercato, ma spingersi oltre come fatto recentemente da Hugo Boss è lontano da qualsiasi rebranding visto sino a oggi.
Coloro che hanno qualche primavera in più non possono che pensare alle epocali rivoluzioni fatte nel corso degli anni da colossi come Nike e McDonald’s, il primo capace di intervenire pesantemente sul celeberrimo Swoosh, il secondo chiamato a legare la propria immagine al concetto di sostenibilità e attenzione all’ambiente, attraverso codici colore mai utilizzati prima (uno su tutti il colore verde). Siamo stati (e lo siamo tuttora) legati alle ispirazioni date da maestri del branding come Alina Wheeler con il suo “Designing brand identity” o il guru Michael Johnson autore dell’intramontabile “Branding. In five and a half steps”.
Per quanto si stia argomentando di brand che hanno fatto della propria fluidità comunicativa il proprio successo, e per quanto i libri appena citati restino best seller, parlare del rebranding di Hugo Boss significa altro, vuol dire analizzare un “ripensamento radicale” di un brand che ha deciso addirittura di reinventarsi e sdoppiarsi in due nuovi brand differenti.
Daniel Grieder: il nuovo e geniale CEO di Hugo Boss
Ma procediamo per gradi. Dieci o quindici anni fa Hugo Boss era un vero e proprio punto di riferimento nel settore della moda, grazie a un posizionamento perfetto e a una notorietà di marca da fare invidia a molti brand concorrenti. Negli ultimi sei anni, complici diverse rivoluzioni che hanno attraversato questo specifico settore, ma non solo, il brand tedesco ha perso il suo appeal.
Per questo motivo dal giugno 2021 Hugo Boss ha un nuovo CEO, Daniel Grieder con un’esperienza di oltre 20 anni in Tommy Hilfiger. Sin da subito gli obiettivi sono chiari quanto ambiziosi: raddoppiare le vendite aziendali a 4 miliardi di euro entro il 2025. Per farlo il brand si è concentrato esclusivamente sui negozi monomarca e sull’e-commerce, con un piano marketing previsto di oltre 100 milioni di euro. L’inizio è promettente, durante il quarto trimestre dello scorso anno le vendite sono aumentate del 51% su base annua. Come è stato possibile tutto ciò?
Un marchio, 2 label: quando il rebranding ci vede doppio
L’obiettivo strategico era massimizzare il potenziale del brand e modernizzare la sua identità visiva, coinvolgendo diverse generazioni, riuscendo a interpretarne i gusti e le esigenze.
Nascono così due differenti label: Boss e Hugo.
Le differenze non sono solo formali ma anche sostanziali, le due etichette che andremo ad esaminare avranno in comune solo una grafica più moderna, un’estetica più “casual e giocosa” come ha affermato l’ufficio stampa player tedesco. Inoltre, c’è stato un passaggio a un font sans serif in minuscolo, scelta singolare ma studiata nel minimo dettaglio se si pensa che anche marchi prestigiosi come Saint Laurent e Burberry hanno fatto una scelta simile.
Boss, il marchio di punta con capi di alta qualità sartoriale casual, abiti da sera e athleisure, si rivolge ai Millenials (tra i 25 e i 40 anni), al contrario Hugo, con una sartoria di tendenza che comprende denim, streetwear e abiti per le feste, punta alla Generazione Z (sotto i 25 anni).
A generazioni diverse corrispondono campagne diverse e mezzi diversi. Il primo ha veicolato la campagna #BeYourOwnBoss principalmente su Instagram, il secondo brand più accessibile a livello di prezzo è costantemente presente su TikTok con la campagna #HowDoYouHugo.
Ma la vera rivoluzione non si esaurisce qui. Protagonista delle due diverse campagne è un numero spropositato di Influencer e celebrity, anche queste molto differenti a seconda della label. A “sposare” Boss sono volti noti fra i quali Khaby Lame, Matteo Berrettini e Kendall Jenner, tra i testimonial di Hugo figurano invece la modella Adut Akech, la ballerina Maddie Ziegler e l’estroso rapper Big Matthew.
La potenza di fuoco dell’influencer marketing
C’è un dato significativo che può testimoniare la bontà dell’investimento fatto da Hugo Boss in termini di influencer marketing. Durante la Milano Fashion Week Lame, Big Matthew e la modella Gigi Hadid sono stati protagonisti di un evento tenutosi al Kennedy Sport Center. Inoltre, per l’occasione Boss ha lanciato una sfida di danza TikTok #BossMoves, dando vita a uno spettacolo senza precedenti capace di registrare 4 miliardi di impression sui social media nei primi quattro giorni.
Questo numero è solo una parte di un’analisi degli indicatori chiave di campagna il cui monitoraggio, come spiega Miah Sullivan Vicepresidente senior marketing globale e comunicazione di Hugo Boss, avviene su base giornaliera.
Questa case history evidenzia come sia possibile affidare un rebranding a una strategia di influencer marketing, rendendo una campagna scalabile nel lungo periodo. È tuttavia determinante studiare, come nel caso di Hugo Boss, le modalità di collaborazione più idonee per gli influencer scelti, valutando, tra le tante, queste tre strade:
- Pagamento in base ai contenuti e al numero di post
- Pagamento fisso con l’aggiunta di un fee affiliazione (soprattutto per VIP e brand ambassador)
- Cedere quote societarie, anche nel caso di collaborazioni più durature
- Prodotti in cambio di recensioni (questo vale solo per i micro influencer)
Insomma, prescindendo dalla tipologia di collaborazione è importante instaurare relazioni stabili con gli influencer, coinvolgendo gli stessi su diversi canali e partendo da un’idea di rebranding chiara e strutturata in ogni minimo dettaglio.